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Le Kokeshi Dolls di Beatrice Alegiani

8 Giugno 2013 - ARCHIVIO
Le Kokeshi Dolls di Beatrice Alegiani

Fra le tante traduzioni pervenute  del termine giapponese Kokeshi, c’è quella di “piccolo papavero”.  L’affinità della tradizionale bambola di legno al papavero in effetti è intuibile: come il purpureo fiore di campo, la kokeshi possiede una larga testa sferica che poggia su un sottile corpo cilindrico. Del papavero possiede la semplice evanescenza, che sa attirare gli sguardi e sa farsi notare nel mare dorato dei campi di grano, donando quel tocco di poesia e pura vivacità allo scenario. Giocando con la stessa peculiarità nelle proporzioni, e ispirandosi proprio a questi gioielli della cultura classica giapponese, nascono le opere di Beatrice Alegiani, artista romana, che ha dedicato alle kokeshi un’intensa produzione, riproponendole in una moderna declinazione pittorica. Beatrice attribuisce un significato del tutto personale a queste bambole dalla grande testa e grandi occhi, ma dal busto minuto e fragile, praticamente privo di arti. Mantiene nelle sue tele l’impeccabilità e l’ordine con cui le kokeshi si presentano, dipingendo “le sue bambole” su fondo bianco. Pulito, distaccato, etereo, così che a noi queste bambole sembrino “galleggiare” in un mondo lontano, da cui possono osservare con ironia il nostro.

Sebbene Beatrice non abbia ancora visitato la terra giapponese, l’amore per la cultura orientale l’affascina fin da bambina così come l’amore per l’arte e l’espressione pittorica. Esperta conoscitrice di arti marziali, si laurea in architettura col massimo dei voti, applicando allo studio la stessa disciplina coltivata nelle arti marziali. La sua pittura è precisa e meticolosa, i suoi tratti definiti, semplici ed efficaci come un manga giapponese, la stesura del colore elaborata e ricercata in linea con lo stile pop surrealistico, le tonalità cangianti e i soggetti ammiccanti che di volta in volta vestono panni diversi, come i kimono delle kokeshi stesse.

 

Incontriamo Beatrice nel suo studio romano, variopinto come una cartolina con la fioritura dei ciliegi di Kyoto. Sulle mensole le originali bamboline di legno che l’ hanno ispirata.

Sembra che in Giappone le bambole kokeshi si diffusero a partire dal periodo Edo (1603-1867), nel Touhoku, la regione del nord ricca di acque solfuree; preparate con legni pregiatissimi, venivano poi rivendute come souvenir ai turisti che si recavano ai bagni termali. Beatrice, raccontaci come si è fatta strada l’idea di rielaborare pittoricamente questo soggetto tradizionale giapponese. 

Dal principio la mia attenzione fu rivolta alle matrioske, le bambole russe di legno, che da bambina non smettevano di meravigliarmi con i loro incastri a sorpresa. Ne avevo di tutti i tipi. Non sapevo allora, che le matrioske non erano che una rivisitazione di quelle che poi sarebbero state la mia passione, le kokeshi. Incontrai la mia prima kokeshi su carta stampata, il mio quindi non fu un “incontro tridimensionale” come molti possono pensare. Sfogliando un catalogo di moda, trovai un trafiletto  di Banana Yoshimoto dal titolo “Kokeshi Dolls”. Seguiva un servizio fotografico e una serie di illustrazioni sul mondo underground giapponese, il cyber-punk, il gothic e le bambole kokeshi! Rimasi affascinata… eppure  lasciai che i semi che l’articolo aveva gettato, germogliassero lentamente, anni dopo, quando già ero entrata in possesso delle prime kokeshi in legno, ed avevo avuto il tempo di rielaborare un mio linguaggio artistico.

bambola kokeshi#5-60x60 Trasformare quella che  era una semplice passione per il disegno e la pittura in una solida concretizzazione artistica per te non è stato un processo immediato. Ad oggi sei un architetto attivo, il cui lavoro è molto apprezzato, e allo stesso tempo un’artista attenta, scrupolosa nelle sue realizzazioni. In che modo lasci che le due realtà coesistano?

In un dialogo aperto. Io provengo da studi scientifici pur amando l’arte, in seguito ho scelto una facoltà ancora di base scientifica, ma che lasciava ampio margine di creazione. Negli ultimi anni di università mi sono dedicata in egual misura sia agli esami che all’attività pittorica. L’ ho fatto privatamente, frequentando corsi e scuole, facendo da assistente a maestri pittori, lavorando sodo per migliorare ogni giorno. Ho poi trasferito le capacità acquisite al lavoro di architetto, mi sono specializzata infatti nella realizzazione dei render, che sono quei progetti grafici che rappresentano oggetti o architetture, ma che non sono semplicemente disegni di piante in due dimensioni, sono immagini tridimensionali che mi consentono di spaziare con la creatività, di introdurre quel valore aggiunto che proviene dalla mia predisposizione artistica.

 

E invece quanta “Architettura” c’è nei tuoi dipinti?

Sicuramente c’è tanta disciplina e tanto rigore. Quel rigore necessario per far sì che un buon progetto funzioni. Ammetto che in parte anche l’educazione ricevuta dai monaci shaolin in Cina quando praticavo arti marziali, ha dato il suo contributo formativo. Pretendo che le mie creazioni siano il più possibile aderenti all’idea d’ origine, per questo serve tanta tecnica e metodo. Molti, osservando le mie opere, mi hanno chiesto se fossero realizzate in computer grafica. Non è così.

 

Dipingi Kokeshi di grosse dimensioni, in genere 90×120. Con queste misure la sproporzione della testa è ancora più evidente. A che cosa pensano le Kokeshi di Beatrice?

Forse pensano troppo! Devo dire che io adoro questo genere di bellezza sgraziata, sproporzionata, perché mi trasmette un senso di tenerezza e profonda ironia. Non ho scelto una testa grande perché fosse piena però di pensieri razionali, volevo che fosse piena di sogni.

 

Quale messaggio custodiscono questi corpi sproporzionati, dove la bellezza è un attributo non immediato ma da ricercare?

Non solo la bellezza, c’è soprattutto un’identità da ricercare. Del resto non poteva essere altrimenti in una produzione seriale. Trovo che ci sia molta corrispondenza all’attuale dimensione sociale: nella dispersione operata dai grossi agglomerati urbani, dove tutto può rimanere piatto e anonimo, è difficile alla fine ritrovarsi, addirittura è difficile scoprirsi. Non a caso adopero degli sfondi completamente bianchi. Intendo declamare questa decontestualizzazione, questo senso di sospensione che evidenzi una ricerca, in cui alla fine, anche nella ripetizione, quel che conta è trovare la propria voce, affermare le proprie idee, rischiare di essere se stessi semplicemente. Quindi il messaggio implicito delle mie kokeshi è in realtà una domanda, cioè: “Chi sei veramente oggi?” ma anche e soprattutto:  “Cosa fai oggi per renderti felice?”. Con le mie bambole provo a dare una risposta.

bambola kokeshi-90x120                bambola kokeshi#2-90x120

 

 

 

 

 

 

 

 

 Analizzando le opere di Beatrice, dai volti così realistici seppur deformati, dagli occhi esageratamente grandi, si ha come l’impressione che quest’artista voglia guardare il mondo  proprio attraverso l’enormità di questi occhi. E di rimando anche chi le osserva, si specchia in un mondo a parte, fatto di idee vaporose, di colori sgargianti, di giochi d’infanzia e di scenari ironici. Il suo impegno nel trovare un’identità a ciascuna kokeshi, è fatto di racconti moderni, è un’indagine condotta con garbo, senza incursioni nella psicanalisi o resoconti sociali.

Anche gli occhi di Beatrice sono grandi e profondi, li riconosciamo in alcune opere, arguti e ammiccanti, perché già hanno trovato le risposte di cui avevano bisogno. L’invito, o il gioco se vogliamo, è provare a fare altrettanto.

 www.beatricealegiani.com 

di: Giorgia Sbuelz