di: Giorgia Sbuelz
Mauro da anni si occupa di comunicazione nelle sue molteplici declinazioni, dice di se stesso di non essersi accorto nemmeno di quando la componente artistico/creativa ha cominciato a contaminare il suo lavoro e la sua vita.
Ama definirsi un edonista, ma riferendosi all’edonismo degli anni ’80, quello originato dalla politica di Ronald Reagan. Un momento in cui l’ottimismo generato dalla fine della guerra fredda era tangibile: il cinema sfornava pellicole dai toni leggeri che divenivano campioni d’incassi, moda e musica spesso si fondevano in pirotecnici connubi, gli uomini avevano più tempo per corteggiare le donne, e le donne truccatissime facevano il loro ingresso trionfale nelle aziende e in politica.
Quel clima di ottimismo generale si è trasmesso come un virus tra le persone che proprio in quegli anni vivevano il fiorire della propria attività intellettuale e lavorativa, e in qualche modo è sopravvissuto, nonostante l’infrangersi delle aspettative la notte del bombardamento su Baghdad e il principio della crisi economica mondiale. Mauro quindi è un “portatore sano” di quel tipo di virus, legato al ricordo di una società opulenta, della bellezza evidente e del vigore nelle imprese.
Nelle sue opere, la dicotomia tra un’età dell’oro perduta e la consapevolezza del proprio tempo, è palese, a volte stridente. Da una parte c’è il recupero del recente passato, dall’altra la lucida constatazione del presente, che non sempre collimano. Ma procediamo per gradi.
Quando hai cominciato a dedicarti all’arte consapevolmente?
Mi sono sempre occupato di comunicazione, di eventi, di grafica e pubblicità utilizzando le mie attitudini personali, cioè una spiccata predisposizione all’immagine, che mi dava degli ottimi risultati quando si trattava di organizzare eventi e campagne. Nel privato mi divertivo a creare disegni e dipinti, avevo sempre a disposizione cartoncini e pennelli e le idee prendevano forma spontaneamente. Dipingevo anche di notte, nella solitudine dell’ufficio, con tele spianate a terra accompagnato dalla musica. Quando mi resi conto che il tempo che dedicavo alla pittura era preponderante, ho cominciato a non produrre più lavori effimeri, ma mutai l’intenzione in intenzione permanente. Era circa il 2002. Da lì sono arrivate le prime collettive e poi le personali.
Nelle tue opere sono lampanti gli omaggi e i richiami ai grandi artisti. A chi devi di più?
Difficile dirlo. Il mio amore per l’arte mi ha portato a fagocitare più spunti possibili. Diciamo che le mie sono dichiarazioni… amo Pollock, Basquiat, Picasso, Afro, Mirò, Vedova, Sironi, ma anche Francesco Clemente, Julian Schnabel. Artisti diversi, distanti, da cui ho rubato particolari per arrivare ad una mia produzione ricca di contaminazioni. Apparentemente illogica, ma che invece aderisce ad una personale visione di percorso.
Che riscontri hai avuto dalle prime esposizioni?
Ricordo una mostra al Caffè Emporio di Roma. Presentavo “Percorsi Urbani”. Ho lavorato molto per quell’esposizione, sono stato assorbito giorno e notte per mesi. La riconoscenza dei visitatori però mi ha ripagato degli sforzi, e da lì ho capito che la produzione artistica per me era catartica. Trasformava le energie negative in positive, e mi faceva stare meglio con me stesso.
Arte e Comunicazione, spiegaci come le vivi tu.
Nasco come responsabile del settore grafico dell’azienda di famiglia. La stretta collaborazione con i dipendenti grafici è stata propedeutica, ho preso confidenza col mondo delle immagini e il loro utilizzo in quel periodo, nella seconda metà degli anni ’80.
Oggi vivo semplicemente osservando la realtà e comunicandola agli altri senza velleità artistiche. Sono un istintivo, che vive di pancia e non di testa. Solo in un secondo momento mi accorgo di aver utilizzato il materiale creativo per finalità comunicative.
Anche il mercato artistico sta attraversando un momento di crisi. Quali sono le tue considerazioni?
Quello che mi dispiace è soprattutto il calo dell’affluenza alle mostre. I visitatori si concentrano maggiormente il giorno del vernissage, per poi diminuire fino al nulla nei giorni successivi. Non si percepisce il valore del nuovo, ci si rifugia nei soliti artisti blasonati sulla scena da anni.
Personalmente l’accetto come sfida. Io stesso ho compiuto delle scelte impopolari esponendo delle opere di difficile fruizione accanto a realizzazioni più facili da piazzare: i classici paesaggi dai colori tenui, le tele d’arredamento per così dire. Francamente non mi interessa vendere piegandomi alle richieste, preferisco esporre rimanendo autentico. Se per primo non credo io nell’opera non ci crederanno nemmeno gli altri, non avrò lasciato nulla. Certo, il massimo del riconoscimento per un pittore è la buona vendita, non posso negarlo. Ma io procedo nonostante la crisi, voglio lasciare traccia di me stesso.
Ritorniamo quindi al valore che attribuisci all’edonismo?
Penso proprio di sì. Non posso prescindere da quella visione dei piaceri di un’epoca che ho io stesso sperimentato. Cosa sono i “Talent Show”?… Cosa c’è di bello dentro? I talenti su commissione, tutto è costruito, pianificato… tutto poco talentistico! Pensiamo ai grandi gruppi musicali, l’exploit che hanno avuto negli anni ’80, parliamo dei Queen, Dire Straits, gli U2. Saltavano per caso fuori da un Talent Show? Anche la computer grafica nasce in quel periodo. C’era fermento costante.
La musica ti ispira o ti accompagna?
Mi sono accorto di dipingere sempre quando ho della buona musica intorno. Diciamo che più che ispirarmi mi sostiene. Il grande omaggio alla musica che conta l’ ho reso con la mostra “The Queen and Painting Show”, di cui sono stato anche l’organizzatore.
Che tecniche adoperi? Quali materiali?
Ultimamente mi sto dedicando al riciclo dei materiali. Ne è un esempio la collettiva a cui ho partecipato dal titolo “Riciclart”.
Un segno dei tempi?
Sicuramente non sono tempi per sprecare.
Come vedi questi tempi allora?
Ho scelto di vederli da un’ottica ottimistica. Auspico il ritorno dell’artista non solo come intellettuale, ma come lavoratore, cosa che effettivamente sta accadendo. L’artista è diventato concreto, non più un pensatore chiuso nel suo studio, ma un lavoratore a servizio dell’arte, come si faceva nel Rinascimento. C’è bisogno del ritorno alla bottega, del creativo artigiano. Solo così possono ancora nascere opere monumentali, o opere che travalicano il tempo.
Il prossimo progetto?
Voglio portare una doppia personale con un mio collega coetaneo, Stefano Cucchi, che ha vissuto i miei stessi anni da un punto di vista e di vita completamente diverso, con una resa totalmente differente.
Quale pensiero per concludere?
Mi piacerebbe rivivere e veder vivere l’arte come si era soliti fare nel decennio che ho a cuore. Vorrei ci fossero maggiori incentivi per la nascita di vere e proprie Factory, come era accaduto al gruppo di Andy Warhol, con grandi esposizioni in location adeguate, che raccolgono la musica migliore, la moda e i media. Sarebbe una spinta ad esorcizzare il timore di investire in beni artistici.
Nei frequenti dialoghi con i mercanti d’arte, mi è stato più volte ribadito che quando ci sarà il ritorno alla vendita dell’arte vorrà dire che l’economia è ripartita. In un paese come l’Italia mi sembra di vitale importanza.
di: Giorgia Sbuelz