Cosa potrebbe succedere se perdessimo un giorno? Se non ne avessimo più ricordo, come se fosse scivolato via silenziosamente da agende, internet, quotidiani e dalle teste del genere umano? Un giorno che sarebbe potuto essere il più insignificante o il più importante della nostra vita, un buco nel tempo non solo individuale, ma collettivo, di cui non esista più traccia, di cui non ci sia spiegazione perché, a volerla ricercare con buon senso e lucidità, nulla sarebbe più logico. Cosa accadrebbe? Dopo tutto si tratterebbe di un solo giorno…
Il 13 marzo 2007, il giorno mai vissuto, diviene per Valerio Malerba un pericoloso e seducente rompicapo.
Per lui, scrittore di libri – inchiesta sui fenomeni soprannaturali, ricercatore del mistero per vocazione e scettico per natura, rintracciare la ragione di quel black out nella memoria comune diviene una missione personale. Svelare l’enigma fornirebbe a Valerio del succulento materiale per il suo prossimo romanzo e, forse, potrebbe rispondere alla domanda che più gli preme, l’appunto in agenda segnato il giorno precedente la fatidica data: “Sara. Domani?”. Sara… la donna che ha sempre amato, eppure non ricorda di averla incontrata, anzi non ne ha notizie da tempo… non gli resta che accettare la sfida, mentre gli indizi aumentano in proporzione ai segnali di un pericolo sconosciuto e mortale.
La misteriosa convocazione di un collezionista a Firenze che consegna a Valerio un video agghiacciante è la prova di come il 13 marzo 2007 sia in qualche modo esistito, ma volutamente cancellato. Da chi? Per quale scopo? Queste sono le domande su cui si ritrova ad indagare il protagonista de “Il giorno rubato” di Marco De Franchi, l’autore di questo avvincente romanzo della collana Fantastico italiano, diretta da Luigi De Pascalis per La Lepre Edizioni.
Una trama oscura e appassionante che si snoda nell’anima di una Roma sotterranea, dove culti malefici e ancestrali si mescolano alle vite di chi la abita in un sottile inganno che dura da secoli. Valerio percorre tragitti nascosti che seminano morte e che gli fanno incontrare Federica, una giovane bella e spaventata che ha già perso troppo… il suicidio di un caro amico della ragazza, Luca, e la sua voce che al telefono continua a guidare ed ammonire, sono solo tasselli del mosaico che mano a mano si va componendo e che disegna una Roma dal cuore nero e pulsante nei suoi sotterranei. La città descritta da Marco De Franchi è un’immagine speculare e terribile della stessa. Gli itinerari e gli scorci che allietano di giorno, di notte si trasformano in varchi per altre realtà. Qui vengono svelati segreti raccapriccianti che fanno cadere le maschere degli dèi benevoli per cui in passato si edificavano templi, mentre i miti vengono riletti nell’ottica della paura.
La Mater Matuta romana non è la dea del Mattino protettrice degli uomini e delle cose, ma è una divinità malvagia e pre-arcaica che richiede pegni di sangue. I demoni non sono proiezioni mentali, ma interagiscono con i protagonisti:
“Non mi sembra che siano volutamente cattivi, se capisci cosa intendo, penso che noi per loro rappresentiamo un semplice fenomeno da osservare, forse un incidente della natura. Tu non esiteresti un momento a cancellare con il piede un segno nella sabbia, no? Ecco. Noi siamo per loro come segni nella sabbia. Se andiamo ad infastidire i loro piedi.”
In una corsa contro il tempo Malerba intuisce il piano occulto che coinvolge il destino dell’umanità intera e cerca in ogni modo di porvi rimedio, se non altro per comprenderne la trama superiore. Mentre “loro” sono sempre in agguato e si nutrono delle fragilità del protagonista, sbarrandogli la strada, stordendolo e stremandolo, in un ritmo narrativo che ricorda la suspense caratteristica di alcuni sceneggiati del passato come “Il segno del comando”, o “Ai confini della realtà”, dove l’ oggettività è fluttuante, i sensi sono alterati e il raziocinio cerca una via di fuga.
In quest’opera Marco De Franchi è abilissimo nel ricercare e ricollegare diversi filoni di teorie parascientifiche e paranormali, attribuendogli una matrice comune, legandole ad una verità superiore e sconosciuta. Lo fa intessendo una trama ricca di suggestioni, dove i parametri del conscio vengono sovvertiti senza mai perdere il bandolo della matassa. Quello di De Franchi è un genere fantastico che ricorda Philip K. Dick , ma anche H. P. Lovecraft, in una declinazione tutta italiana, mediterranea se vogliamo, colta e millenaria, che non conosce frontiere di settore e dal forte carattere universale.
L’autore ci ha gentilmente concesso un’intervista:
Marco De Franchi, il tuo romanzo “Il giorno rubato” è un’opera che mette in risalto, oltre alla tua abilità narrativa e descrittiva, anche un’accurata documentazione legata ad un certo tipo di fenomenologia, che va dall’archeologia esoterica alle più recenti ricerche parascientifiche. Qual è stata la particolare scintilla che ha innescato l’idea de “Il giorno rubato”?
Prima di tutto, grazie per le tue belle parole. Dunque, l’idea del “Giorno” è nata mentre dormivo. Non scherzo. Un attimo prima ero in piena fase REM e un attimo dopo ero sveglio con questa storia del giorno scomparso che mi risuonava nel cervello. Mi è sembrata accattivante e ho ringraziato il dio delle idee. Poi è venuto tutto il resto:l’impianto esoterico-fantascientifico, l’idea delle divinità cattive (Lovecraft docet), i fenomeni alla Charles Fort, eccetera. Qui sono stato aiutato dalle mie antiche passioni: non solo la narrativa fantastica, l’horror e la fantascienza ma anche la curiosità per i fenomeni paranormali, per l’insolito in genere. Durante la mia adolescenza, occulto e misteri erano il mio pane quotidiano. Con dannazione dei miei genitori che avrebbero preferito un figlio affetto da più tradizionali turbe psico-sessuali. Pensa che a tredici anni avevo fondato un gruppo di ricerca che si occupava di parapsicologia, ufologia, spiritismo e discipline varie, e poco più tardi ho iniziato a girare l’Italia alla ricerca di fenomeni inspiegabili. Una follia che mi divertiva ma che perseguivo seriamente, leggendo, documentandomi, divorando un po’ di tutto e coinvolgendo i miei amici. E che alla fine ha anche animato la mia vena narrativa. Come Malerba nel romanzo, anche io sono sempre stato uno scettico che vuole intensamente credere. E ancora adesso non invitarmi a visitare una casa infestata che arrivo di corsa.
Gli scenari utilizzati raccontano un’Italia sotterranea, che sembra più viva e sveglia dell’Italia a cui siamo abituati a pensare. Troviamo ad esempio il ritratto di una Roma dal doppio volto, sontuosa nei resti della storia che rappresenta, quanto oscura e temibile nei suoi millenari segreti. Possiamo dormire sonni tranquilli, o secondo te c’è una realtà che sotto sotto ribolle in questo Paese?
Una volta Fruttero e Lucentini, grandi scrittori ma poco esperti di fantascienza e che però dirigevano Urania, dissero che “un disco volante non poteva atterrare a Lucca”. Questa boiata ci ha perseguitato per anni. Non solo i dischi volanti possono atterrare dappertutto, ma l’Italia, con le sue leggende, i suoi misteri, le sue narrazioni popolari é un Paese molto meno solare di quanto si pensi. Dal nord freddo e ombroso al sud popolato da fantasmi agghiaccianti. E’ una cosa che gli scrittori “fantastici” sanno benissimo, un po’ meno il grande pubblico. E al centro di questa Italia oscura e dannata non poteva non esserci una città magica come Roma. Io sono nato a Roma e la amo (credo che nel libro si senta). Ma la amo proprio perché non è mai uguale a se stessa. L’aspetto esteriore non è appunto che un aspetto. Basta attraversare, la notte, certe zone del centro per capirlo. Ci sono vicoli e piazze che non puoi dar loro le spalle che, zac, cambiano, si tramutano sotto i tuoi occhi consegnandoti uno scorcio – se sai guardare – di quello che la città nasconde veramente. E che non è sempre piacevole anche se è certamente affascinante. E poi c’è la città ipogea, che è davvero una cattedrale sepolta a testa in giù, all’interno della quale si trovano paesaggi bellissimi e misteri che non ne vogliono sapere di restare nascosti. Roma è nata e si è evoluta, strato su strato, seppellendo sotto di sé tanti di quegli enigmi che c’è materia narrativa per un milione di storie. Basta avere coraggio. E un pizzico di follia.
Un certo tipo d’indagine e di presentazione, sempre a proposito della città di Roma, si ritrova anche in un vecchio sceneggiato Rai degli anni 70: “Il segno del Comando”. Sei stato in qualche modo influenzato da quelle atmosfere?
Sono contento che molti lettori – almeno quelli attenti come te – abbiano colto il riferimento a “Il Segno del Comando”. E’ assolutamente voluto. Non solo nel tentare di rievocare quelle atmosfere romane che dicevamo, ma proprio nella struttura narrativa. E’ stato un grande sceneggiato (che bello chiamarlo così e non fiction come si usa oggi), con un ritmo e un’atmosfera assolutamente ineguagliati. E un sano senso del colpo di scena. Lo rivedo continuamente. E ancora oggi rievoco i brividi che provai, la prima volta, in certi suoi passaggi, come quando il professor Foster (un ispirato Ugo Pagliai) partecipa alla seduta spiritica in cui la medium, additandolo con voce tremante, gli dice “tu sei morto”! Una vera goduria. Ho tentato di evocarne qualche scheggia nel mio romanzo. Spero di esserci riuscito almeno in parte.
Sei stato finalista ai premi Tolkien di narrativa fantastica negli anni 80. Quanta strada hai fatto da allora e in che modo sei cambiato?
Francamente molta meno strada, in senso professionale, di quanto avrei voluto. Ma un mestiere impegnativo, una famiglia, qualche guaio e una mia generale pigrizia hanno rallentato moltissimo la mia attività narrativa. Che allora, tanti anni fa, sembrava partita come una cannonata. Grazie proprio al Tolkien e al mio mentore di allora, Gianfranco de Turris. Però sono contento così. Anche questo mio “ritorno” al fantastico, dopo una parentesi nel così detto noir, mi ha aiutato a liberarmi di certi legacci psicologici e mi ha riconciliato con la voglia di scrivere. Sono cambiato, certo, perché ho visto e fatto molte cose da allora ma anche perché è cambiato il modo di raccontare storie, oggi, sono cambiati gli strumenti narrativi. E in quest’ottica, sento di essere più padrone del mestiere di scrittore. Nel senso che mi sento più libero di scrivere quello che voglio nel modo che voglio. L’ossessione della pubblicazione – che, almeno per chi inizia, è la molla che ti fa lavorare sodo – non è più un’ossessione negativa. E’, adesso, solo uno stimolo, E, insomma, sì, se devo esser sincero credo adesso di essere pronto a esperienze più importanti. Ma la scaramanzia vuole che, sul punto, stia zitto…
Sei nato a Roma ma vivi a Livorno dove sei impiegato nelle forze dell’ordine. Ti sei definito “uno scrittore che di mestiere fa il poliziotto”. Come concili le due attività?
Quando ho iniziato a fare “il poliziotto” e, in particolare, l’investigatore nella squadra mobile, ho, per qualche anno, dimenticato di scrivere. Ero immerso in un’esperienza troppo forte, intensa e totalizzante per trovare il tempo e il modo per scrivere “finzioni”. E poi la realtà che vivevo ogni giorno era molto più terrorizzante dei miei più riusciti racconti dell’orrore. Dopo, ho ritrovato la strada di casa e ho scoperto che non c’era alcun conflitto. Peraltro l’investigatore e lo scrittore hanno molti punti in comune. In entrambi i casi bisogna saper indagare la realtà, sviscerarla, analizzarla sotto molti punti di vista. Anche il poliziotto come lo scrittore deve ricostruire una storia, che sia plausibile, logica, dove tutto debba tornare al suo posto. E poi bisogna saperla descrivere adeguatamente questa storia. Quando scrivo un’informativa di polizia su un crimine più complesso di altri, mi lascio tentare anche da qualche trucco da scrittore. E ti assicuro che aiuta. Ci sono stati pubblici ministeri che si sono convinti di certe tesi anche perché avevo saputo narrarle nel giusto modo. Detto questo, sia chiara una cosa: io sento di essere uno scrittore (anche se la mia carriera ha subito alterne fortune) e il poliziotto è solo quello che faccio (anche se mi piace molto). A differenza poi di molti colleghi sbirri che hanno scritto romanzi tratti dalle loro esperienze professionali (molti dei quali, per carità, con ottimi risultati), io la passione della scrittura e la voglia di raccontare storie ce l’ho da quando ho avuto il dono della parola. E appena trovo il tempo, come riesco ad allontanarmi da crimini e misfatti, e la mente aggancia quell’altra realtà, quella che vive tra le mura della mia mente, del mio cuore e del mio stomaco, torno a mettere parole sulla carta. Una dopo l’altra. Finché qualcosa esce fuori.
… Dove ti trovavi il 13 marzo 2007?
Ah, questa è una bella domanda. Ma non mi cogli impreparato. Ho un’agenda su cui segno tutte le cose che faccio. Sai, le idee, i progetti, una specie di diario giornaliero insomma. E al 13 marzo 2007… aspetta che guardo… ecco… dovrei… hmm… sì… ma l’intervista è finita vero?
di Giorgia Sbuelz